ARgomentazioni psicologiche
- Identificare e sviluppare le risorse personali per il miglioramento della qualità della vita
- Favorire lo svilupparsi di modalità cognitive positive
- Incoraggiare le relazioni positive con gl’altri
- Consentire l’auto accettazione
- Spingere verso l’autonomia
- Accrescere l’autostima
- Ampliare le attività di coping
- Stimolare la creatività
— L'APPROCCIO COGNITO COMPORTAMENTALE
L’approccio terapeutico cognitivo comportamentale ti permette di capire quali sono i pensieri, gli schemi e quindi le abitudini dannose per il tuo benessere, bloccandoli e modificandoli. La Psicoterapia Cognitivo Comportamentale agisce su emozioni, pensieri e comportamenti con l’obiettivo di migliorare il giudizio su di sé, vivere meglio e raggiungere i propri scopi di vita.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale è sostenuta da prove di efficacia e validità secondo la “Evidence Based Medicine”.
— SCHEMA THERAPY
La Schema Therapy è una forma di psicoterapia, sviluppata dal Dr. Jeffrey E. Young per il trattamento dei disturbi di personalità e per i disturbi cronici dell’Asse I, come, ad esempio, per i pazienti che non rispondono o recidivano dopo essere stati seguiti con altre psicoterapie (per esempio, la tradizionale CBT). La Schema Therapy è una psicoterapia integrata del ventunesimo secolo che sinergicamente e sistematicamente combina teorie e tecniche di terapie già esistenti, tra cui la Terapia Cognitivo-Comportamentale, le relazioni oggettuali psicoanalitiche, la teoria dell’attaccamento e la psicoterapia della Gestalt. L’obiettivo della schema therapy è quello di aiutare i pazienti a soddisfare i loro bisogni emotivi di base, aiutando il paziente a imparare come:
- sanare gli schemi diminuendo l’intensità delle memorie emozionali che comprendono lo schema e l’intensità delle sensazioni corporee e cambiando i modelli cognitivi connessi allo schema;
- sostituire stili di coping e risposte disadattive con modelli di comportamento adattivi.
Una delle tecniche più centrali nella terapia dello schema è l’uso della relazione terapeutica, in particolare attraverso un processo chiamato limited reparenting.
—TERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE
La terapia sistemico-relazionale si concentra su quanto avviene nell’ambito delle relazioni umane. Nozione cardine è quella di sistema, nel quale ogni variazione nello stato di un elemento finisce con il modificare lo stato di ognuno degli altri.
Il sistema famiglia ha un grande potenziale che è quello di essere in grado di aiutare il paziente a gestire e risolvere il suo malessere, rendendo la sua vita più funzionale. Specialmente in casi che riguardano i bambini o gli adolescenti (ambiti in cui la terapia familiare risulta un approccio particolarmente valido), si possono manifestare blocchi evolutivi che possono ridursi sino a scomparire completamente lavorando con le famiglie. L’individuo è pur sempre un sistema, dotato di caratteristiche strutturali ed organizzative leggibili ancora con un paradigma sistemico. Data la possibilità di operare utilizzando varie forme di psicoterapia (individuale, di coppia e familiare), il terapeuta valuta di volta in volta la scelta più idonea per ogni paziente. La psicoterapia sistemico relazionale, attraverso l’utilizzo di compiti da attuare sia nelle sedute terapeutiche che a casa, si articola intorno alle problematiche dei ruoli, della gerarchia, delle alleanze, e della qualità della comunicazione all’interno del sistema.
— ANALISI TRANSAZIONALE
Il secondo assioma sulla comunicazione umana di Paul Watzlawick, psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense, che afferma quanto segue:
“La comunicazione umana è sviluppata su 2 piani: Il contenuto, e la relazione.
Il piano della relazione classifica il contenuto della comunicazione”
La difficoltà di creare relazioni è uno dei punti di maggiore sofferenza dell’essere umano. Il cuore della relazione è la capacità di ascoltare mettendo da parte il proprio ego. Non si può fare un vero ascolto se non si fa spazio dentro di se per far posto ad altro. Se non entra il nuovo si rimane sempre uguali a se stessi. Per comprendere meglio l’aspetto relazionale, e quali sono le dinamiche che lo compongono approfondiamo l’argomento tramite l’Analisi Transazionale (A.T.). Si tratta di una teoria psicologica elaborata negli anni ’60 dallo psicologo canadese Eric Leonard Bernstein, conosciuto come Eric Berne, e Thomas Antony Harris, indiscusso portavoce di questa teoria. A Eric Berne va il merito di aver reinterpretato la psicoanalisi, spogliandola del linguaggio tecnico comprensibile a pochi esperti, e rendendola familiare e leggibile ad un vasto pubblico. L’A.T. è una teoria della comunicazione basata sull’analisi delle transazioni di specifici stati dell’Io coinvolti, e permette di comprendere come i nostri schemi abbiano origine nell’infanzia, e continuino a riproporsi nella vita da adulti, rivelandosi talvolta inadeguati o dannosi.
— EDUCAZIONE RAZIONALE EMOTIVA
L’Educazione Razionale Emotiva è una procedura psicoeducativa, introdotta in Italia dallo psicologo e psicoterapeuta Mario Di Pietro. Prima ancora che si diffondesse il concetto di intelligenza emotiva, l’Educazione Razionale Emotiva si è affermata come metodica atta a favorire una crescita affettiva armonica nel bambino, mettendolo in grado di realizzare in pieno le proprie potenzialità e il proprio benessere. E’ un’estensione in ambito educativo di una teoria e di una prassi psicoterapeutica ideata dallo psicologo Albert Ellis e nota col termine di Terapia Razionale Emotiva Comportamentale REBT. L’Educazione Razionale Emotiva viene attuata attraverso un percorso didattico che conduce il bambino ad acquisire consapevolezza delle proprie emozioni e dei meccanismi mentali sottostanti e ad apprendere procedure per fronteggiare in modo costruttivo le difficoltà che può incontrare nell’ambiente scolastico e familiare.
- Gli obiettivi specifici dell’Educazione Razionale Emotiva:
- incrementare la frequenza e l’intensità di stati emotivi piacevoli;
- favorire l’accettazione di se stessi e degli altri; facilitare il superamento di stati d’animo spiacevoli;
- aumentare la tolleranza alla frustrazione;
- favorire l’acquisizione di abilità di autoregolazione del comportamento;
- incentivare la cooperazione in alternativa alla competizione
— DISTURBI D’ANSIA
Il disturbo d’ansia generalizzata (DAG) è una condizione patologica a causa della quale ogni evento o circostanza diventa una potenziale fonte di preoccupazione, in misura sproporzionata rispetto alla reale portata del problema. Chi soffre di questo disturbo non sa dire in maniera precisa quando è iniziato, poiché ritiene di essere ansioso da sempre. In effetti è difficile stabilire se si tratta di un disturbo vero e proprio o di un insieme di aspetti della personalità, che possono essere presenti fin dall’adolescenza. La caratteristica tipica del disturbo d’ansia generalizzata è una sensazione continua di tensione e paura, che porta a vivere in uno stato di apprensione costante, di attesa di un pericolo che riguarda tutte le situazioni della vita, per esempio:
- la propria salute e quella delle persone care (“Quando sento un’ambulanza penso che sia capitata una disgrazia a mio marito o ai miei figli”)
- il rendimento scolastico o lavorativo (“Oddio, non passerò l’esame… Se arrivo tardi al lavoro verrò senz’altro punito”)
- le novità rispetto alla vita di tutti i giorni, comprese le attività piacevoli come partire per le vacanze (“Chissà cosa succederà, spero che non ci accada niente di brutto”)
Anche se presenta delle somiglianze con il disturbo da attacchi di panico, il disturbo d’ansia generalizzata si differenzia perché i sintomi compaiono nel tempo, in maniera più lenta e graduale, non sono presenti attacchi d’ansia così forti ed improvvisi e in genere non si verificano comportamenti di evitamento, cioè la tendenza a evitare specifiche situazioni.
— BIPOLARISMO
I cambiamenti di umore sono frequenti e del tutto naturali. Un umore mutevole, fatto di “alti e bassi” o definito “lunatico”, non è una malattia se non interferisce in modo significativo con le attività della vita quotidiana. Il disturbo bipolare, in passato definito “malattia maniaco-depressiva”, si caratterizza per l’alternanza nel tempo di episodi di depressione e di fasi cosiddette di mania. Nel linguaggio psichiatrico il termine “mania” indica una condizione di euforia patologica, cioè eccessiva, immotivata e potenzialmente pericolosa. In questo caso, quindi, l’euforia non rappresenta una condizione di reale benessere. L’episodio maniacale corrisponde infatti a uno sproporzionato innalzamento del tono dell’umore e delle energie, che può causare evidenti anomalie del comportamento. In condizioni di euforia una persona non è affatto consapevole del proprio stato di malattia e spesso sono dunque i familiari a dover richiedere un intervento medico a fronte delle evidenti alterazioni comportamentali del paziente. Quest’ultimo, dal canto suo, ritiene di stare benissimo o addirittura di non essersi mai sentito meglio, almeno nelle fasi iniziali dell’episodio maniacale. E’ opportuno parlare di mania (condizione di euforia patologica) quando sono presenti, per un periodo di almeno una settimana, buona parte dei seguenti sintomi:
- persistenza di umore euforico e allegro senza motivo
- umore facilmente irritabile e rabbioso quando si viene contraddetti o ci si sente ostacolati nei propri desideri o attività
- sensazione di grande benessere psicofisico
- ottimismo e fiducia eccessivi nelle proprie capacità
- riduzione del bisogno di sonno (importante sintomo premonitore)
- iperattività
- eccessiva spinta a parlare (logorrea)
- maggiore consumo di sigarette (per chi è già fumatore). Anche questo può essere un sintomo premonitore
- aumentata reattività agli stimoli dell’ambiente (ad esempio suoni, voci, oggetti, colori) che genera un calo di concentrazione e una difficoltà nel mantenere l’attenzione verso ciò che si sta facendo
- maggiore sensibilità alla luce e conseguente uso degli occhiali da sole anche se non necessari, vale a dire in condizioni di scarsa luminosità
- comportamento eccessivamente disinibito, abbigliamento eccentrico e poco adeguato al contesto, esibizionismo
- elevata impulsività che può condurre a comportamenti aggressivi
- coinvolgimento eccessivo in attività piacevoli ma potenzialmente pericolose: spese esagerate (shopping, gioco d’azzardo, investimenti ecc.); accresciuta generosità verso gli altri, con regali spesso eccessivi o immotivati; aumentato desiderio sessuale; abuso di sostanze stupefacenti.
— DISTURBI DEPRESSIVI
Cos’è la depressione? La depressione è un disturbo dell’umore che compromette fortemente la qualità della vita, con ripercussioni psicologiche, fisiche, cognitive e affettive. Nel linguaggio quotidiano la parola “depressione” è utilizzata di frequente in maniera impropria per indicare una sensazione transitoria di tristezza, demotivazione, voglia di piangere, fragilità emotiva:
“Mi sento triste e depresso”
“Questa vita mi deprime”
“Oggi sono depressa e non so perché”
Spesso queste espressioni – che a molti sarà capitato di ascoltare e magari qualche volta di pronunciare – definiscono in realtà una condizione chiamata demoralizzazione, che non impedisce di vivere esperienze piacevoli o di svolgere le proprie mansioni quotidiane. Si tratta di un malessere che in diversi casi è temporaneo, si risolve spontaneamente ed è per lo più legato a momenti di vita stressanti o a specifiche situazioni di disagio. La depressione – o per meglio dire la Depressione Maggiore – è invece una patologia caratterizzata non solo da sofferenza psicologica, ma anche da sintomi fisici e da un cambiamento importante che riguarda il modo di vedere se stessi, la propria spinta ad agire, il rapporto con il mondo circostante.
— FOBIE
La fobia è una paura eccessiva e irrazionale che si scatena in assenza di un reale pericolo. Più precisamente si definisce “fobia specifica” la paura sproporzionata provocata dalla presenza o dall’attesa di determinate situazioni. Questo timore si considera patologico quando causa comportamenti che limitano in modo serio la vita di chi ne è affetto. L’origine delle fobie non è chiara. L’ipotesi più accreditata è che siano causate da fattori concomitanti: predisposizione genetica, esperienze traumatiche vissute nell’infanzia, condizionamenti culturali. Possono essere spiegate come un funzionamento “esagerato” dei meccanismi di difesa del nostro organismo, che normalmente servono a metterci in allerta di fronte a un rischio per garantirci l’incolumità o la sopravvivenza.
Chi ha una fobia è quasi sempre consapevole che si tratta di un’ansia immotivata non è in grado di gestirla e superarla autonomamente. In generale si possono distinguere le seguenti categorie di fobie specifiche:
Fobia degli animali
E’ quella più diffusa ed è molto frequente nei bambini. In alcuni casi può persistere nell’età adulta e riguarda in genere una sola specie, ad esempio insetti, ragni, scarafaggi, serpenti, cani, gatti, topi, uccelli (molto frequente la fobia dei piccioni nelle grandi città).
Paura di volare (aerofobia o aviofobia)
E’ la fobia di viaggiare in aereo, che può avere diversi livelli di intensità. Alcune persone riescono ad affrontare il volo, ma lo trascorrono in uno stato di tensione continua, dal decollo all’atterraggio, e spesso vivono una condizione di ansia anche diversi giorni prima di partire. Altri non hanno mai preso un aereo e provano terrore anche solo all’ipotesi di comprare un biglietto. L’aerofobia non è causata solamente dall’eventualità che l’aereo possa precipitare (incidente, guasto, turbolenza) ma anche da altri fattori, come la claustrofobia e l’agorafobia. In diversi casi, infatti, la paura è legata all’idea di rimanere chiusi e fermi in uno spazio stretto e affollato, come l’aereo, in cui non si ha il controllo della situazione e da cui non è possibile uscire se ci si sente male. I principali sintomi della paura di volare sono: tachicardia, accelerazione del respiro, sudore, sensazione di panico, oppressione al petto, capogiri, diarrea. Molti di questi sintomi possono essere scatenati dal solo pensiero di dover salire su un aereo: pertanto, come nel caso del Disturbo da Attacchi di Panico, l’ansia anticipatoria assume un ruolo fondamentale nel mantenimento della sintomatologia ansiosa. L’aerofobia può avere un notevole impatto sulla qualità della vita, poiché limita la libertà di movimento sia nelle trasferte di lavoro sia nei viaggi per le vacanze.
Claustrofobia
Paura degli spazi chiusi e stretti: ascensore, metropolitana, gallerie, sotterranei, ma anche luoghi normalmente “piacevoli” come cinema e teatro. Molto temuta, da alcune persone, l’apparecchiatura per effettuare la risonanza magnetica. Chi soffre di claustrofobia teme di soffocare o di non avere aria e luce a sufficienza, ha la sensazione di trovarsi in trappola e di poter essere schiacciato dalle pareti. Per questo i claustrofobici tendono a evitare le situazioni “a rischio”, ad esempio salendo le scale a piedi invece di prendere l’ascensore, oppure camminando per lunghi tratti pur di non prendere i mezzi pubblici.
Agorafobia
E’ la paura delle situazioni in cui può essere difficile scappare o ricevere aiuto in caso di bisogno: ad esempio mezzi pubblici, grandi spazi aperti, tunnel, ponti, luoghi chiusi o affollati, ascensori, aerei, automobili (specie in condizioni di traffico o in autostrada). Questa fobia potrebbe essere rivelatrice di un disturbo da attacchi di panico.
Fobia delle malattie
E’ il timore di poter contrarre o sviluppare una grave malattia, come il cancro, l’AIDS, l’infarto. In molti casi la paura riguarda una singola malattia, che può anche cambiare nel tempo. Chi soffre di questo disturbo vive in un continuo stato di allarme ed è sempre all’erta nel cogliere i messaggi inviati dal proprio corpo, anche se viene rassicurato dal medico.
— DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
Cos’è? Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) può essere definito in modo più semplice come “malattia del dubbio”. Chi ne soffre è tormentato continuamente da pensieri e dubbi difficili da mandar via. Questi pensieri, detti appunto ossessioni, possono avere contenuti molto diversi ma sono tutti accomunati dalla forte ansia, paura o disagio mentale che riescono a generare, anche se a livello razionale possono essere considerati esagerati o assurdi. Per ridurre o placare quest’ansia, o meglio nel tentativo di allontanare le ossessioni, di frequente vengono messi in atto dei comportamenti o dei “rituali” della mente che si definiscono compulsioni (dal latino “compellere”: obbligare, costringere). Spesso chi li compie non riesce a fare a meno di attuarli e li vive come indispensabili o addirittura obbligatori, pur ammettendone l’irragionevolezza.
Il bisogno di essere rassicurati
In realtà i rituali compulsivi non bastano mai a tranquillizzare il paziente e vengono eseguiti in modo esagerato o per un numero eccessivo di volte. Ad esempio, i comportamenti compulsivi comprendono anche le richieste di rassicurazione che una persona affetta da disturbo ossessivo-compulsivo rivolge a familiari, parenti, amici, colleghi, medici e figure religiose (preti, sacerdoti) con l’obiettivo di placare i dubbi patologici. Tuttavia le rassicurazioni non sembrano mai abbastanza convincenti e vengono richieste in continuazione. Non è raro, inoltre, che le persone più vicine al paziente vengano attivamente coinvolte nei rituali compulsivi, con il rischio che il malessere si estenda all’intero nucleo familiare. Anche se la presenza di pensieri ricorrenti o di comportamenti messi in atto con una certa ritualità fanno parte dell’esperienza quotidiana, si parla di disturbo ossessivo-compulsivo quando i pensieri ossessivi e le compulsioni procurano un forte disagio che rende difficile lo svolgimento delle normali attività quotidiane.
— TRAUMI
Pierre Janet riassume perfettamente il concetto di trauma psicologico:
“è il risultato dell’esposizione ad un inevitabile evento stressante che va oltre i meccanismi di coping (affrontamento) della persona. Quando le persone si sentono enormemente sopraffatte dalle loro emozioni, i ricordi non possono essere trasformati in esperienze narrative neutrali. Il terrore diventa una fobia della memoria che impedisce l’integrazione dell’evento traumatico e frammenta i ricordi traumatici, separandoli dalla coscienza ordinaria, lasciandoli organizzati in percezioni visive, preoccupazioni somatiche e reazioni comportamentali”. Questo significa che, affinché si verifichi un trauma psicologico, devono essere soddisfatte tre condizioni:
- Un evento che consideriamo stressante
- Non avere le risorse emotive e cognitive necessarie per affrontare questo evento
- Incapacità di elaborare emotivamente ciò che è accaduto, così da rimanere bloccati nel ricordo traumatico
Quando pensiamo ai traumi psicologici, di solito immaginiamo situazioni estreme. Questi sono i traumi con la “T” maiuscola, eventi generalmente inaspettati e con un grande impatto emotivo che riducono le nostre risorse di coping. Fortunatamente, questi traumi sono i meno comuni. Ma ci sono anche traumi con la “t” minuscola, che sono molto più comuni e possono persino diventare più pericolosi poiché non siamo sempre in grado di identificarli. Questi traumi sono causati dall’esposizione ripetuta a eventi che finiscono per danneggiare le risorse di coping, come le perdite o situazioni di umiliazione e sofferenza. Si tratta di “traumi cumulativi”. Per comprendere la differenza tra entrambi i tipi di traumi, possiamo immaginare che i traumi con la “T” maiuscola siano un getto d’acqua che riempie il nostro “bicchiere psicologico” in un batter d’occhio. I traumi cumulativi, con la “t” minuscola, riempiono il bicchiere lentamente, goccia a goccia. In entrambi i casi il bicchiere finis ce per traboccare.
Questi psicologi hanno seguito per oltre 9 mesi più di 3.000 persone che avevano subito un incidente d’auto. Hanno così scoperto che metà di loro aveva sviluppato un disturbo psicologico a causa dell’incidente. Ma non si trattava di stress post-traumatico, dal momento che questo si sviluppa di solito a seguito di un trauma con la “T” maiuscola, ma di problemi d’ansia e depressione. Questo indica che probabilmente l’incidente è stato la goccia che ha fatto traboccare un bicchiere psicologico che era già abbastanza pieno.
— LUTTI
Il termine è stato introdotto in psicoanalisi nella traduzione dell’opera originaria di Sigmund Freud, Lutto e melanconia (1915), dove lo studio del processo del lutto avveniva attraverso lo studio della depressione negli adulti. In questo scritto Freud (1915) chiarisce l’origine della malinconia come condizione psicopatologica, riporta le sue principali riflessioni sul lutto e sulla differenza tra lutto normale e lutto patologico. Egli scrive che il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona umana o di un’astrazione che ne ha preso il posto, (come la patria, la libertà o un ideale), e che quando in alcuni individui questa perdita assume caratteristiche di una specifica disposizione patologica, allora il lutto si declina nella melanconia (Freud, S., 1915). Si tratta in entrambi i casi di una perdita dell’oggetto d’amore ma che, nel caso della melanconia, questa perdita ha risvolti patologici in quanto il naturale processo del lutto viene sottratto alla coscienza. Nel processo del lutto dunque, la perdita riguarda l’oggetto, ma nella melanconia sembra riguardare, da ultimo, il soggetto stesso. John Bowlby (1983) afferma che è corretto utilizzare il termine lutto per indicare tutti quei processi psicologici, consci o inconsci, che vengono suscitati dalla perdita di una persona amata, a prescindere dall’esito finale, se patologico o normale. Il lutto così concepito descrive il dolore, più o meno esplicito, che una persona prova nel vivere un’esperienza di perdita.
Riassumendo invece i diversi aspetti che sono coinvolti nell’esperienza del lutto possiamo parlare di: presenza di un evento di perdita, l’insieme delle reazioni personali alla perdita, gli aspetti socio-culturali che costituiscono lo sfondo dell’evento e che contribuiscono a modificarne le caratteristiche. L’esperienza di perdita è vissuta diversamente da individuo a individuo e perciò può risultare scorretto, da un punto di vista clinico, giudicare come patologiche le reazioni psicologiche di un soggetto nelle prime fasi del lutto. È utile, invece, riconoscere le differenze in ogni individuo in termini di intensità e durata del fenomeno e considerare anche il gruppo culturale di appartenenza (Silver, R.C, Wortman, C.B., 2007; Bonanno, G.A., Boerner, K., 2007; Lombardo, L., Lai, C., Luciani, M., 2014).
L’esperienza della perdita costituisce un passaggio universale sempre presente nel corso della vita umana e per l’uomo è estremamente dolorosa, in quanto lascia un senso di vuoto attorno al soggetto che lo costringe, inevitabilmente, a pensare ad un tempo in cui sarà la propria perdita a realizzarsi, a pensare il tempo della propria morte, o quello che precede la propria origine (Jabès, E., 1992).
— MOBBING
Heinz Leymann, nel 1984, con la prima pubblicazione scientifica sull’argomento, introduce l’uso del termine MOBBING per indicare la particolare forma di vessazione esercitata nel contesto lavorativo, il cui fine consiste nell’estromissione reale o virtuale della vittima dal mondo del lavoro. Leymann inizia ad utilizzare la parola MOBBING, per indicare quella forma di “comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più individui (mobber o gruppo mobber) verso un altro individuo (mobbizzato) che si viene a trovare in una posizione di mancata difesa”. In Italia si inizia a parlare di mobbing sul lavoro solo negli anni ‘90 grazie allo psicologo del lavoro Harald Ege, che raffigura il fenomeno come “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori” attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno 6 mesi. Ripetitività e durata sono dunque le 2 condizioni che devono essere presenti perché si possa affermare di trovarsi in presenza di mobbing sul lavoro. In seguito a questi attacchi la vittima progressivamente precipita verso una condizione di estremo disagio che, progressivamente, si ripercuote negativamente sul suo equilibrio psico-fisico. Il mobbing è una strategia, un attacco ripetuto e continuato, secondo alcuni, almeno una volta alla settimana per almeno sei mesi, diretto contro una persona o un gruppo di persone da parte del datore di lavoro, superiori o pari grado che agiscono con finalità persecutorie.
Gli atti e i comportamenti possono consistere in:
- pressioni o molestie psicologiche;
- calunnie sistematiche;
- maltrattamenti verbali ed offese personali;
- minacce od atteggiamenti tendenti ad intimorire od avvilire, anche in forma indiretta;
- critiche immotivate ed atteggiamenti ostili;
- delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’organizzazione;
- svuotamento delle mansioni;
- attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque atti a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore;
- attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto;
- impedimento sistematico ed immotivato a notizie ed informazioni utili all’attività lavorativa;
- marginalizzazione rispetto ad iniziative formative di riqualificazione e di aggiornamento professionale;
- esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi;
- atti vessatori indirizzati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione.